Roberto Scocco ha detto “no” a questa vita. Se n'è andato a modo suo. Un fucile da caccia ritrovato accanto al corpo esanime. Una torretta d'avvistamento in una villa patrizia di Villa Lauri a Pollenza lo ha “ospitato” per l'ultima volta. Erano i luoghi che Roberto prediligeva.
I quotidiani hanno diffuso oggi la notizia del ritrovamento. Cronaca fredda e ricostruzione distaccata di una vita invece intensa. Non basta!
Roberto non è stato solo un pubblicitario, un appassionato di archeologia e storia, un animatore di residenze nobiliari. E' stato molto di più...
Non ho fatto in tempo ad accettare il suo invito. Ogni tanto mi chiamava – non ci sono mai andato - a Caldarola, al Castello Pallotta che dirigeva con la consueta passione. Cibo ed eventi, buona tavola e rappresentazioni medievali. Non era un lavoro da gestore, il suo. Di quella fortezza lui ne era il “Primo cavaliere”. Mi raccontò delle scolaresche in visita, dello stupore per i personaggi che faceva sfilare dinanzi ai ragazzini. Del suo stesso trasformarsi in un guerriero di altre ere. Eccolo, il punto: lui non mimava, non interpretava un ruolo, non recitava. Roberto viveva quella temperie culturale, il suo animo stava proprio lì, in quelle epoche di ferro e di valori, di etica e nobiltà. Tempi lontanissimi dagli attuali imbarbariti e consumistici. I suoi orizzonti contemplavano le vette non i deserti, il rigoglio e magari l'asprezza della natura, non le piane aride.
Su youtube girano ancora la sua musica e le sue parole. La rinverdimmo in una puntata celebre di Mi Ritorni in mente a Radio Fermo Uno, dopo tanti anni.
Lo conobbi 45 anni fa proprio per questo suo amore. Roberto è stato uno dei primi cantautori non conformisti, lontani dal gregge. Cantava la rabbia per un mondo vagheggiato e perduto. Vedeva intorno a sé crollare una civiltà, intuiva un mondo di dissoluzione avanzante. Denunciava la violenza e le discriminazioni.
Girava l'Italia. Piccole comunità di ragazzi lo chiamavano per ascoltarlo, per stare con lui. Lo facevano negli scantinati, in locali nascosti (era tempo di pistole e di spranghe). La canzone era un modo per ribellarsi. Come quella dedicata a Sergio Ramelli, un ragazzino cui aprirono il cranio con la famigerata hazet 36, una chiave inglese diventata peggio di una bomba atomica.
Cantava Budapest dell'amico Leo Valeriano, evocando studenti e operai del circolo Petofi...
Ci credeva, ci credevamo.
Non so perché Roberto abbia detto “basta”. Forse la nostra generazione ha perso. Ha visto naufragare i sogni. E questo, per chi non ha trovato altre fedi e altri lidi, è troppo pesante da sopportare.
I giornalisti parlano di difficoltà finanziarie. Magari pure.
Ma sullo sfondo potrebbero essersi materializzati i gesti estremi di Mishima dinanzi ai suoi uomini del Ta Te No Kai, la Confraternita degli Scudi, o di Drieu la Rochelle, per non farsi catturare dagli anglo americani.
Caro Roberto, forse è vero: la nostra generazione ha perso, ma forse val la pena ricordare a chi resta un amore comune: Tolkien, e le parole che Gandalf pronuncia nel finale de Il Signore degli anelli: «Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi».
Sta' bene. Ora.
Redazione
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Paola
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